Mi chiedo sempre quanto, il concetto di sostenibilità possa trovare un sincero interesse, da parte di chi mi ascolta…
Da un lato siamo tutti sinceramente preoccupati di non dover seppellire il pianeta sotto montagne di rifiuti, però poi, se si guasta il nostro lettore di Dvd (o qualunque altro elettrodomestico), ci appare molto più conveniente buttarlo e comprarne un altro piuttosto che farlo riparare?
Non so se è una leggenda metropolita la cosa che sto per dire, però è stato detto che se tutti i cinesi volessero usare carta igienica come noi, occorrerebbe distruggere mezza l'Amazzonia.
Ma se per ipotesi questa notizia fosse vera, mi chiedo: ma chi siamo noi per impedire ai cinesi di godere dei nostri stessi agi? Saremmo mai disposti a usare in bagno la carta da giornale per permettere quella igienica ai figli del Celeste Impero?
Non sto qui a fare del facile moralismo attenzione, dico questo, perché a me per primo capita di essere sedotto da nuovi prodotti. Per esempio a casa ho un televisore a colori un po’ vecchiotto (quello ancora col tubo catodico per intenderci) che “purtroppo” funziona ancora.
Bene! Facendomi anche violenza mi sono imposto di tenerlo fin quando funzionerà!
L’imperativo che ci assilla, che ci ossessiona è “CONSUMO QUINDI SONO”. Ma non potrebbe essere altrimenti se la nostra ricchezza nazionale si misura ancora con il PIL.
“lo Sviluppo Sostenibile è uno sviluppo che soddisfa le esigenze del presente senza compromettere la possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. (Rapporto Brundtland 1987 )
Mio nonno diceva che quando si sentono ripetere le stesse cose all’infinito poi queste si svuotano di significato e diventano un clichè, stereotipo. Ed effettivamente quante volte abbiamo sentito usare (sarebbe meglio dire abusare) di questa frase…
Di questa frase mi colpisce però la parola: futuro.
Pensiamo al concetto di “futuro”… P. Valery “ Neanche più il futuro è quello di una volta”… Oggi il futuro cambia segno… per nostri nonni il futuro era carico di promesse, di passioni, di aspirazioni… era facile immaginare che ad una certa età si finiva la scuola, che a 24-26 anni ci si sposava, poco dopo si avevano dei figli ecc…
Siamo passati al passaggio da una fiducia smisurata per il futuro a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro… Oggi c’è un clima diffuso di pessimismo che evoca un domani molto meno luminoso, per non dire oscuro… inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, comparsa di nuove malattie…precarietà
Viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinosa chiamava “passioni tristi” un senso pervasivo di impotenza e incertezza che ci porta a rinchiudere in noi stessi, a vivere il mondo (ma anche l’altro) come una minaccia…
L’educazione dei nostri figli non è più un invito a desiderare il mondo: si educa in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, a uscire da pericoli incombenti…
Un adolescenza che si prolunga all’infinito… una vita che si sposta sempre più in avanti…
Ogni volta però mi viene da chiedere del futuro di quali generazioni parliamo.
Del futuro dei nostri figli? Del futuro dei figli degli extracomunitari, del futuro di un bambino africano che al massimo aspira a vivere fino al giorno dopo.
Quanto sono abissali queste distanze…
Considerazioni del genere sembrano fumose e poco pertinenti eppure occorre capire come concetti, apparentemente esterni alla nostra esistenza possano avere un impatto sulla nostra quotidianità…
O meglio ancora quanto la nostra quotidianità, i nostri gesti (anche quelli piccoli e apparentemente insignificati) segnano il nostro essere sulla terra…
A tal proposito mi viene in mente una storia.
"Un uomo ha un piccolo podere in un villaggio che coltiva con enorme fatica per poter mantenere tutta la famiglia con quel pezzo di terra. Arriva la tempesta. L’uomo disperato cerca di fare in modo che l’acqua non sommerga tutta la sua coltivazione, e lavora tutta la notte in mezzo al fango, scava fosse, fa uscire l’acqua da una parte, poi si accorge che è sbagliato, gira dall’altra parte, rompe un albero e lo fa cadere cercando di fermare il torrente; lavora tutta la notte. Ce la fa. Il suo pezzo d’orto non viene distrutto come quello degli altri vicini. Va a dormire stanco morto all’alba. Quando si sveglia, il sole ha seccato tutto, non si vedono più neanche le tracce del fango. Dall’alto della sua casupola si accorge improvvisamente che tutto quello che ha fatto disegna sulla terra una enorme cicogna."
Ci siamo mai interrogati se la nostra vita disegna qualcosa?
E’ vero anche che possiamo vedere il disegno della nostra vita soltanto dopo aver agito. Come l’uomo del racconto che mentre lavorava vedeva solo acqua e fango…
Eppure dovremmo avere maggiore consapevolezza di lasciare una impronta sulla Terra.
La scarsa consapevolezza che la nostra vita disegna qualcosa produce una distanza sempre più profonda valori “esibiti” e valori “vissuti”, e mentre i primi sono quelli di cui si parla (e molto), i secondi sono quelli che, non sempre consapevolmente, guidano le nostre azioni.
Se poi cerchiamo di tradurre operativamente il tema della sostenibilità ambientale siamo sempre più orientati a capire come, nelle attuali condizioni storiche, ambientali, economiche, di produzione, di consumo, di globalizzazione, possiamo sviluppare spirito di comunità e interdipendenza tra gli uomini, e tra questi e le comunità delle altre specie viventi animali e vegetali.
Oggi bisogna progettare strategie di un nuovo rapporto con il mondo, con la natura, la biosfera,. Strategie in grado di rispettare i limiti e legami di sostenibilità.
Quello che emerge come evidente in questo discorso, è che il complesso delle cose da ripensare e da fare, ai macro come ai micro livelli, rimanda in fondo all’obiettivo primario di sfidare i fondamenti del modo di stare e agire insieme degli uomini, del vivere umano associato.
La sfida che lo sviluppo sostenibile propone, può essere raccolta se ci si convince che una forma di sviluppo è l’espressione più o meno coerente di una forma di organizzazione sociale.
Pensiamo alla citta di Ottavia, di Calvino, la città ragnatela. Una città sospesa tra due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle.
Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno.
Tutto il resto, invece d'elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case
fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d'acqua, becchi del gas,
girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi,
teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo.
Sospesa sull'abisso, la vita degli abitanti d'Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno
che più di tanto la rete non regge.
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