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Parla come mangi... a cura di Giorgio Braschi

mercoledì 10 luglio 2013

Ricevo questo invito rivolto agli stakeholder del Progetto Life Governance MAKING GOOD NATURA.

Visto che mi è stato inviato suppongo di essere anch'io, a mia insaputa, uno stakeholder del Pollino, altrimenti perché avrebbero dovuto invitarmi?
Il fatto è che non solo non so di essere uno stakeholder, ma, e scusate la mia ignoranza, non so nemmeno cosa sia uno "stakeholder"!

Così pieno di curiosità per questo mio ruolo sconosciuto, prendo il Collins Giunti e vado a cercare il vocabolo e non lo trovo, evidentemente è composto dalle voci stake e holder unite; allora li cerco separatamente:
stakepalo oppure bastoncino, puntata, interesse;
holderpossessore, proprietario, affittuario, titolare o anche contenitore...

Escludo a priori puntate e interessi che mi sembra non c'entrino niente con il territorio e i SIC ma comunque non capisco, perché non mi sembra di essere proprietario, ne' tantomeno contenitore, di pali o bastoncini, o forse per estensione si riferiscono a proprietari di tronchi, alberi, quindi boschi?
Ma sarebbe bastato scriverlo semplicemente, quindi non sarà così.

Consulto allora il Garzanti - Edizione per docenti e anche qui non trovo la voce stakeholder ma alle voci stake e holder trovo:
stakepalo, piolo, picchetto, paletto, scommessa, puntata, posta, ma anche, come verbo, sostenere con pali, reclamare, rivendicare, scommettere, rischiare, giocare;
holder: come nel Collins possessore, proprietario, titolare ma qui anche sostenitenitore (di idee ecc.).
Mi si confondono ancora di più le idee... sostenitore di paletti, possessore di picchetti, forse, sempre per estensione inteso come picchetti che delimitano una proprietà e quindi proprietario terriero?
Ma se fosse così semplice non bastava scrivere proprietari terrieri? Evidentemente c'è dell'altro che a noi comuni mortali sfugge...

Mi stavo arrendendo, quando un amico che nel frattempo mi è venuto a trovare, mi fa notare che con la mia mentalità ancora un po' arcaica e ruspante, avevo consultato soltanto documentazione cartacea dimenticando le formidabili potenzialità universali e immediate del web... tempo un minuto, "stakeholder" sul motore di ricerca e in dieci secondi la risposta:

Normalmente è definito come portatore di interessi: il concetto di stakeholder è stato teorizzato per la prima volta dallo Stanford Research Institute nel 1963 per indicare tutti coloro che hanno un interesse nell’attività aziendale (da stake che significa posta, scommessa ed holder portatore) e senza il cui appoggio un’organizzazione non è in grado di sopravvivere. Il termine, comunque, è ormai di uso comune, si lega al concetto di portatori di interessi e non solo di diritti e si contrappone all’espressione shareholder, che identifica il possessore delle azioni, vale a dire il portatore di interessi e diritti economici precisi.

Siccome non riesco a capire che cosa c'entri l'attività aziendale, vado sul sito ufficiale del Progetto 


e cerco delucidazioni senza trovarle (ma trovo almeno una ottima definizione di servizi ecosistemici). Torno quindi su stakeholder per cercare di approfondire e leggo:
Nel 1963, lo Stanfort Research Institute ha formulato il concetto di Stakeholder per indicare tutti coloro che hanno un interesse nell’attività di un’azienda e senza il cui appoggio un’organizzazione non è in grado di sopravvivere, includendo anche i gruppi non legati da un rapporto economico con l’impresa.
La definizione attualmente più utilizzata è quella di Freeman (1984) che:
“Gli Stakeholder primari, ovvero gli Stakeholder in senso stretto, sono tutti quegli individui e gruppi ben identificabili da cui l’impresa dipende per la sua sopravvivenza: azionisti, dipendenti, clienti, fornitori, e agenzie governative. In senso più ampio Stakeholder è ogni individuo ben identificabile che può influenzare o essere influenzato dall’attività dell’organizzazione in termini di prodotti, politiche e processi lavorativi. In questo più ampio significato, gruppi d’interesse pubblico, movimenti di protesta, comunità locali, enti di governo, associazioni imprenditoriali, concorrenti, sindacati e la stampa, sono tutti da considerare Stakeholder”.
> Gli Stakeholders sono quindi tutti quegli individui o gruppi che possono influenzare il successo di un’impresa o che hanno interessi nelle decisioni dell’impresa.
> Recentemente (Clarkson, 1995), il concetto di Stakeholder è stato esteso anche a tutti quei soggetti portatori di interessi potenziali per un’azienda, cioè persone o gruppi che hanno pretese, titoli di proprietà, diritti, o interessi, relativi ad un’impresa ed alle sue attività.
Esistono due differenti tipi di Stakeholders (Clarkson):
- Gli Stakeholders primari sono quelli senza la cui continua partecipazione l’impresa non può sopravvivere come complesso funzionante; tipicamente gli azionisti, gli investitori, i dipendenti, i clienti e i fornitori, ma anche i governi e le comunità che forniscono le infrastrutture, i mercati, le leggi e i regolamenti.
- Gli Stakeholders secondari comprendono coloro che non sono essenziali per la sopravvivenza di un’azienda o che esercitano un’influenza diretta sull’impresa stessa; sono compresi quindi individui e gruppi che, pur non avendo rapporti diretti con essa sono comunque influenzati dalle sue attività, come per esempio le generazioni future.
Oh Dio!... allora esistono pure diversi tipi di stakeholders differenti. Devo approfondire per capire a quale tipo appartengo... continuo la consultazione:

Diverse categorie di stakeholder (Mitchell, Agle, Wood 1997)
L’identificazione e la rilevanza degli stakeholders è basata sul possesso da parte di questi ultimi di uno o più dei tre attributi relazionali:
> 1. Potere
> 2. Legittimità
> 3. Urgenza

> Ma come faccio a sapere se ho potere? E su cosa? E chi mi assicura la legittimità? E che livello di urgenza ho, e per cosa? Vediamo più avanti:

Esistono anche definizioni ristrette che cercano di definire i gruppi rilevanti in termini di rilevanza diretta per gli interessi economici essenziali dell’azienda.
• Ad esempio, diversi studiosi definiscono gli STK in termini di necessità per la sopravvivenza dell’impresa (Bowie 1988, Naesi 1995).
• Altri restringono il campo nei termini delle aspettative morali affermando che l’essenza dello STK management dovrebbe consistere nella partecipazione dell’impresa nel creare e sostenere relazioni morali (Freeman 1994).
Le definizioni ristrette cercano quindi una base, un nucleo rilevante sulla base del quale definire la legittimità di aspettativa di certi gruppi come STK che può quindi, come abbiamo visto, essere basata sul contratto, sullo scambio, sul diritto morale ecc.
Le classi di stakeholder
> Stk dormiente
> Stk dominante
> Stk discrezionale
> Stk pericoloso
> Stk impegnativo
> Stk definitivo
> Stk dipendente

Povero me, anziché chiarirsi l'argomento diviene sempre più complesso! Vista l'ora e il sonno che mi sta venendo vado a vedere la definizione di STK dormiente, quello a cui mi sento più vicino in questo momento:

• Stk dormienti: possono diventare rilevanti se cercano di esercitare il loro potere 
(es. dipendenti licenziati diventano dormienti, ma possono fare scioperi 
o dichiarazioni alla radio e non sono più “dormienti”).

E già, comodo che i licenziati diventino "dormienti", ma poi se fanno scioperi o dichiarazioni alla radio magari vengono definiti "pericolosi"...

• Stk pericolosi (potere e urgenza): Es. atti di terrorismo vs certe imprese. 
Sono stk che percepiscono certe urgenze, non sono legittimati all’interno della collettività, ma usano il potere (ad esempio coercitivo) contro l’azienda per far valere le loro aspettative.

Ma qui sono io che ora rischio di diventare STK pericoloso, STK non lo so ancora, perchè dopo due ore di ricerche ancora non ho capito a che titolo lo posso essere, ma pericoloso questo sicuramente sì, perché mi sono proprio stancato e stufato di tutta questa perdita di tempo... ma dico, non si può essere un po' più semplici e chiari in comunicati e inviti per i comuni mortali?

Quanta saggezza nel vecchio detto popolare ... parla come che te magni, dài...

Un caro saluto a tutti

Giorgio




P.S. per chi volesse approfondire:






Un sociologo nel Pollino lucano degli anni ’50. Rileggere Banfield oggi - di Saverio De Marco

giovedì 4 luglio 2013



Le basi morali di una società arretrata è il libro del sociologo Edward C. Banfield ripubblicato da Il Mulino nel 2010. A parte le polemiche (non sempre fondate come si vedrà) che ha suscitato, va sicuramente riletto  per fare il punto sui problemi della società meridionale, sui cambiamenti avvenuti in cinquant’anni e sulla persistenza, dura a morire, di certe dinamiche sociali. E’ forse una delle poche ricerche sociologiche in senso stretto che siano state condotte nel Pollino (precisamente nel paese di Chiaromonte), opera ancora più rilevante se si pensa che il punto di vista è quello dell’osservatore esterno, un intellettuale americano degli anni ’50. In un paese che ha sempre sottovalutato la sociologia e la ricerca sociale, opere come questa sono preziose, a maggior ragione per la coscienza storico-sociale del Meridione.
 Il concetto di “familismo amorale” rimanda alla tesi secondo cui nel paese di Montegrano (nome di fantasia con cui l’autore parlava di Chiaromonte), l’unico interesse del singolo fosse rivolto verso gli interessi della propria famiglia piuttosto che al bene comune. Il termine, rimasto nella storia dopo la pubblicazione di questo libro, ha assunto quasi l’accezione di  un giudizio di valore sulla mentalità meridionale, dalla quale Banfield avrebbe dedotto la causa dell’arretratezza socioeconomica. Le cose sono in realtà un po’ più complesse: Banfield non si riferiva certo al giudizio, ma ad una condizione sociale che aveva origine in più fattori. L’intento di Banfield in realtà era quello di superare la spiegazione dell’arretratezza a partire unicamente da cause strutturali (in parole povere dalle condizioni sociali ed economiche di un’area), non di negare queste stesse cause. E’ da qui che dobbiamo partire per una comprensione corretta e complessiva dell’opera di Banfield. E’ lo stesso autore a sottolineare questo aspetto in più riprese: “il meccanismo che genera il familismo amorale è senza dubbio complesso, e consta di molti elementi che influiscono e si rafforzano a vicenda. La spaventosa miseria della zona e la degradazione di coloro che fanno lavoro manuale (…)hanno certo una grande importanza a questo proposito e costituiscono, per così dire, gli elementi strutturali nel sistema di cause. Ma se ora volgiamo la nostra attenzione verso altri elementi di tale sistema, ciò non vuol dire che sottovalutiamo l’importanza di questi primi due” (p. 151). “Il fatto che i montegranesi siano prigionieri del loro ethos centrato sulla famiglia – e che a causa di ciò non possano agire di concerto o per il bene comune – costituisce un ostacolo fondamentale al loro progresso economico, e al progresso in generale. Non mancano naturalmente altri ostacoli di enorme importanza, quali specialmente la povertà, l’ignoranza, e una struttura sociale che taglia fuori il contadino dalla società più vasta che lo circonda. Ora sarebbe assurdo ravvisare in uno solo degli elementi  la causa dell’arretratezza del paese: tutti questi elementi invece - e senza dubbio anche molti altri –  sono fra loro interdipendenti, e ciascuno è insieme causa ed effetto di tutti gli altri. Il punto di vista qui assunto è che a scopo di analisi e di intervento la base morale di una società può venire utilmente considerata come fattore strategico o condizionante” (p. 165). Lo stesso Banfield aveva coscienza dei condizionamenti strutturali della famiglia nucleare di Montegrano, una famiglia legata alla precarietà della piccola proprietà privata  e che non consente nemmeno forme solidaristiche tipiche di paesi in cui vige il latifondo e sono presenti le associazioni e mobilitazioni bracciantili (Banfield parla di Basso, che dovrebbe corrispondere molto probabilmente al paese di Senise). Banfield mostra efficacemente la necessaria flessibilità di una lettura di classe della società. Nel paese di Montegrano i rapporti di classe sono duttili e non si prestano a facili dicotomie: “nonostante tutto i rapporti di classe a Montegrano sono migliori della media italiana. Una ragione si può trovare nel fatto che nel corso delle ultime generazioni la terra non è rimasta monopolio delle classi abbienti. Il barone  possiede parecchi campi, ma tutti dati a mezzadria.  Nessuno degli altri ‘proprietari terrieri’ possiede più di pochi acri di terra coltivata – in nessun caso più di quanto ne posseggono i contadini più agiati (…) a Montegrano non esistono  organizzazioni sindacali perché non ci sono grossi datori di lavoro, ma a parte questo, è l’atmosfera che è diversa. I signori parlano con i contadini quando li incontrano e magari giocano con loro a carte nell’osteria” (p. 98).
Ciò che sorprende di questo libro e che sembra avvalorare per certi versi la tesi della persistenza di un ethos morale condizionante è la descrizione di atteggiamenti sociali che si ritrovano per certi versi anche oggi, nonostante il quadro di profondo mutamento che ha attraversato anche i paesi ricadenti nella tipologia di Montegrano.  Memorabile la descrizione degli atteggiamenti dei politici, del clientelismo cronico, dell’assenza di legalità, rientranti nel capitolo in cui Banfield elabora la sua “ipotesi predittiva” (“l’ipotesi è che i montegranesi agiscano come se seguissero questa regola generale: ‘massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare; supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo’, p.101).
“ L’improvviso passaggio del segretario della sezione monarchica di Montegrano al Pci si verificò perché la sede del partito, da Napoli, non gli versava regolarmente lo stipendio. Quando egli divenne comunista, i monarchici vennero d un accordo: ed egli tornò alla posizione precedente come se nulla fosse avvenuto”(p. 118)
“La democrazia cristiana ha dato a Prato [un contadino] ogni anno poche giornate di lavoro, e perciò egli vota DC. Ma ritornerebbe ad essere monarchico se la democrazia cristiana non gli desse lavoro, e nessun altro partito offrisse un qualche vantaggio. Così, poiché si pensa che il sindaco Spomo abbia rapporti influenti con il ministero dell’agricoltura, si fa in modo che egli rimanga in carica, benché sia notoriamente disonesto,  e il suo fare sprezzante lo renda inviso. Ma se i consiglieri comunali Viva e Lasso sono in grado di ottenere di più di quanto non ottenga il sindaco, o lo ottengono più rapidamente, allora tutti si schierano contro il sindaco”(p. 115).
“Quanto alla legislazione sul minimo salario e sui contributi assistenziali dovuti dal datore di lavoro per il personale di servizio, essa è universalmente ignorata (…) Spesso, al lavoratore non conviene rivolgersi al maresciallo per la difesa dei suoi diritti; per lui è indispensabile essere in buoni rapporti con coloro che possono dare lavoro: è meglio sopportare la frode che essere privati di qualsiasi occasione di lavoro. E così i datori di lavoro hanno l’abitudine di pagare solo quando gli fa comodo. Al contadino può toccare di doversi recare un mese dopo l’altro, con il cappello in mano, a chiedere educatamente al ‘signore’ le mille lire di cui è creditore” (p. 108).
Nell’ultimo capitolo Banfield tentava di delineare delle proposte d’intervento, che si identificavano, oltre che con efficaci politiche amministrative, in un allargamento dei processi di partecipazione al bene comune e nell’implementazione di nuovi stimoli culturali. Ciò non significava, per il sociologo americano, che al familismo dovesse subentrare una sorta di idilliaco altruismo; per Banfield, anche l’individualismo, se indirizzato però a scopi benefici avrebbe sortito effetti positivi (“quando l’istruzione è un mezzo accessibile per superare il proprio vicino, il contadino lo desidera intensamente”). Altri strumenti educativi erano individuati da Banfield nella creazione di giornali locali indipendenti ,che avrebbero invogliato alla lettura e all’interessamento verso la cosa pubblica. Un ruolo possibile nella prospettiva dello sviluppo di attività comunitarie e cooperativistiche  (ad esempio Banfield parlava della creazione di una squadra di calcio) veniva dato (a torto o aragione) alla piccola e media borghesia locale, considerando il suo buon livello di istruzione. Il familismo amorale, doveva essere per Banfield modificato in almeno tre aspetti:
“1. L’individuo deve definire il proprio interesse, o l’interesse della sua famiglia, in termini meno ristretti di quanto non comporti il suo vantaggio materiale immediato (…)
2. Almeno un ristretto numero di persone deve avere la capacità morale di agire in qualità di leader (…) [che] debbono essere in grado di svolgere in modo responsabile ruoli organizzativi e creare ed ispirare il morale all’interno dell’organizzazione. (…)
3. Il corpo elettorale e in generale il ‘pubblico’ non debbono distruggere l’organizzazione gratuitamente o per dispetto o invidia: essi debbono cioè essere disposti  a tollerarla quando essa non interferisce con i loro affari” (pp. 168-169). La conclusione di Banfield sulla possibilità del riscatto era comunque pessimistica. A distanza di sessanta anni i nodi irrisolti di quella che Gramsci chiamò questione meridionale permangono. Sono mutati i problemi, ma ancora oggi la ricerca sociale potrebbe dare il suo contributo a fare il punto su certi nodi problematici e a proporre soluzioni possibili.
Saverio De Marco
(Dottore in Sociologia)

Il calzolaio (E. De Luca)

venerdì 28 settembre 2012

Un calzolaio è tenuto a fare bene le scarpe, questo è il suo compito istituzionale. Se poi vuole darsi un supplemento di responsabilità civile, allora deve stargli a cuore la buona causa di dare libertà di scarpa e di cammino a tutti, di più a chi ne è privo. Lo stesso uno scrittore: è tenuto a scrivere bene le sue storie e se ha fatto questo in buona coscienza,ha meritato il rango e lo stipendio. Ma se ci tiene a darsi un impegno in più, allora gli spetta di promuovere la libertà di parola per chiunque, compresi i suoi avversari. Libertà di parola detta, scritta, letta, cantata: per tutti non solo per qualche collega ristretto da un regime. In anni passati ho letto di qualche scrittore nostrano che esigeva il silenzio, l’ammutolimento civile per qualcuno a lui sgradito. Questo è rinnegamento puro dell’unico impegno e impiego utile di uno scrittore: garante del diritto di espressione di chiunque. Al di fuori di questo ambito a me è capitato nella vita di servire qualche buona causa. Ho fatto parte dell’ultima generazione rivoluzionaria di Europa, ho fatto l’autista di convogli di aiuti nella guerra di Bosnia, sono stato a Belgrado nella primavera del ’99 a stare dalla parte del bersaglio degli attacchi aerei della Nato. Queste e altre simili sono state mie mosse di cittadinanza. La scrittura non c’entra e se c’entra, segue come in una cordata su un ghiacciaio. A battere pista davanti ci pensa la vita. Diffido di scrittori in politica. La lusinga di una tribuna ha rimbambito e deluso più di uno. Uno per tutti, perché lo preferivo, Leonardo Sciascia, finito a occupare da pedone un banco parlamentare. Se quello è impegno di scrittore, meglio niente. Infatti smise in fretta. Perciò non vi so dire, donne e uomini affacciati sopra questo schermetto illuminato, in che consiste l’impegno civile di uno scrittore, uno che ha un piccolo diritto di ascolto. Un amico, poeta in Sarajevo negli anni 90, smaltì in città l’assedio, il più lungo del 1900. Rifiutò inviti all’estero presso illustri colleghi, istituzioni. Izet Sarajlic (nato nel 1930, morto nel 2002): coi suoi versi di amore tre generazioni bosniache avevano celebrato fidanzamenti e nozze. Chi è responsabile della festa, lo è pure del dolore. Così restò in città, nelle file per il pane, l’acqua, sotto la dissenteria di colpi dei cecchini e dell’artiglieria. Quello è stato il suo impegno: stare, condividere la malora del suo popolo. Non pubblicare appelli dall’estero, aggiungere una firma in calce a un manifesto: stare, verbo che a volte copre tutto il da farsi urgente. Stare coi suoi dentro Sarajevo, in quegli anni, come scrive lui: “Il più grande carcere d’Europa”. È solo un esempio di responsabilità civile, io sono uno che scrive storie, cioè che racconta esempi, non so trarre, astrarre alcuna regola di comportamento. Non sono una persona impegnata, sono uno che qualche volta ha preso degli impegni. Non mi piace firmare appelli, petizioni e simili sciacquature di coscienza. Se posso, preferisco stare al pianoterra dove succede attrito tra idee e ordine pubblico. In quei posti, dalla Val di Susa a Termini Imerese, si lavora al pezzo di libertà da custodire, in minoranza contro l’usura della dote assegnata dalla costituzione. La libertà comporta isolamento e rischio feriale, su piste remote e di periferia, non è una passeggiata al centro un fine settimana. Aggiungo un esempio opposto a quello di Sarajlic: l’effetto letterario di un impegno civile. Quando la mia generazione politica cominciò a entrare in massa nelle prigioni contagiò la popolazione rinchiusa. Scoppiarono rivolte, che produssero poi la riforma carceraria. A volte i traguardi riformisti hanno bisogno di spinte rivoluzionarie. Effetto secondario dell’entrata dei militanti politici in prigione fu l’arrivo dei libri: prima non c’erano. Entrarono coi rivoluzionari e cambiarono il tempo e il luogo delle reclusioni. Fu rotta la privazione supplementare del diritto di leggere: in certi posti è diritto di accesso alla parola. Tra questi due esempi fa la spola il mio pensiero quando rispondo di letteratura e impegno. Non c’è linea prescritta, se c’è non la conosco. Credo nel tentativo giorno dietro giorno di scippare ai poteri costituiti dei pezzi di verità. Oggi compito per me urgente è di sapere quanti stranieri sono stati uccisi a Rosarno nella caccia all’uomo. Nessuno: dice l’autorità. Il giornalismo attuale, senza spirito di inchiesta non sa e non può smentire la menzogna. Torno al calzolaio: qui si tratta di fare un paio di scarpe buone alla verità scalza che non sa fare un passo.

I FIGLI BASTARDI DELLA GLOBALIZZAZIONE

sabato 23 giugno 2012

‎"Aggiornamenti sul familismo amorale"



il posto il favore le mani sui coglioni
accompagnare con la macchina i figli a scuola
leggere il giornale sportivo sul frigo del bar
gettare le carte per terra
organizzare con cura la cresima dei figli
fare e ricevere regali orrendi
andare a messa senza crederci
dimenticare i morti
votare gli imbroglioni
uscire alle feste patronali e le sere di agosto
parlare male di chi fa qualcosa di buono
e così via
furiosamente lontani dalla dignità
dalla poesia.

Franco Arminio

I LEGAMI DEBOLI, I MOTORI DELLA NOSTRA DIVERSITÀ INFORMATIVA?

venerdì 13 aprile 2012



I ricercatori di Facebook, guidati da Eytan Bakshy, hanno pubblicato un nuovo studio che si interessa a come le persone ricevono e reagiscono alle notizie all’interno delle reti sociali. Un studio che ci invita a “Ripensare alla diversità dell’informazione nelle reti (vedi l’articolo di ricerca intitolato, più modestamente, Il ruolo delle reti sociali nella diffusione dell’informazione). 

Perché “ripensare alla diversità informativa delle reti sociali?" Perché generalmente i ricercatori si accordano nel ritenere che in questo ambito venga favorita l’omofilia, ossia i legami con persone che si somigliano,
 favorendo il “restringimento” della parte del web che frequentiamo. Numerose tesi accreditano questa ipotesi, che i social media e le tecnologie digitali tendano a dividerci in tribù ideologiche che leggono, guardano o ascoltano solo le notizie che confermano le proprie credenze, come spiegato da Farhad Manjoo nel suo libro True Enough. È anche la tesi di Eli Pariser in The Bubble Filter: gli algoritmi di personalizzazione del web ci spingono a consumare una diversità informativa sempre più ridotta. Cass Sunstein, nel suo libroRepublic.com, arriva a dire che il web potrebbe essere incompatibile con la democrazia, rendendo la società sempre più polarizzata e solipsista.
I legami deboli sono gli aspetti più influenti dei nostri reti sociali
L’esperienza di Bakshy era abbastanza semplice. Normalmente quando uno dei vostri amici condivide un legame su Facebook, il sito utilizza un algoritmo conosciuto sotto il nome di EdgeRank che determina se il legame deve essere appoggiato al vostro flusso. Nell'esperienza di Bakshy, realizzata nel corso di sette settimane nell'estate 2010, una piccola frazione di questi legami veniva censurata in modo aleatorio e non veniva aggiunta al vostro flusso. Il blocco aleatorio dei legami ha permesso a Bakshy di creare due popolazioni distinte. Nel primo gruppo, c’era un legame richiesto da un amico che decideva se condividerlo o ignorarlo. Invece, nel secondo gruppo, le persone non ricevevano la richiesta ma, se vedevano altrove la notizia, potevano decidere di condividerla. Paragonando il comportamento dei due gruppi, Bakshy ha potuto rispondere ad alcune importanti domande sul modo con cui navighiamo nella notizia on line, ha spiegato Farhad Manjoo in un forum su Slate.com. Le persone sono più inclini a condividere le notizie perché sono i loro amici a inviargliele? E se siamo più inclini a condividere queste storie, con quale genere di amicizie vorremmo condividere queste notizie (amici prossimi o persone con cui abbiamo interagito poco di frequente?)
L'esperienza ha permesso a Bakshy di vedere come una nuova informazione (la notizia che non avreste condiviso se non l'avreste notata su Facebook) viaggi attraverso le reti. Una serie di risposte che ha permesso di chiarire meglio quello che Farhad Manjoo definisce "la camera di risonanza": se un algoritmo come EdgeRank dà maggiore importanza a una notizia che avete già visto, ciò farebbe di Facebook una camera di risonanza delle vostre opinioni. Ma se EdgeRank favorisse le nuove notizie che viaggiano in rete, allora Facebook diventerebbe una fonte preziosa di informazioni più che un riflesso del vostro "piccolo" mondo.
È esattamente quello che asserisce Bakshy. Infatti, ha mostrato che, quanto più siete vicini a un amico su Facebook (quanto più commentate l’un l'altro i vostri post, quanto più spesso apparite insieme su delle foto, eccetera), tanto più condividerete i link con questo amico. A prima vista, sembra che Facebook incoraggi la camera di risonanza: "Abbiamo la tendenza a dare risonanza alle conoscenze più vicine."
Ma se tendiamo a condividere la notizia con gli amici più prossimi, continuiamo anche a condividere le informazioni dei nostri legami più deboli, e questi link che provengono dalle conoscenze più remote sono i nuovi legami delle nostre reti. Questi link tendono a diffondere una notizia che non avreste condiviso se non l'avreste notata su Facebook. Questi legami deboli sono indispensabili alla vostra rete, spiega Bakshy: "Hanno accesso a siti web differenti che altrimenti non visitereste."
L'importanza di questi legami deboli sarebbe senza importanza se i nostri rapporti su Facebook non fossero principalmente costituiti da legami deboli. Anche se prendiamo in considerazione la definizione più morbida di un legame forte (qualcuno con cui avete scambiato un messaggio o un commento), la maggior parte delle persone hanno più legami deboli su Facebook rispetto a quelli forti. "Sono le persone più influenti nelle nostre reti sociali", sottolinea Farhad Manjoo: "Questo ci suggerisce che Facebook e i social media non ci propongono solamente una conferma del mondo, ma EdgeRank tende a farci uscire dalla nostra bolla filtrante invece di rafforzarla."
La nostra rete relazionale è eterogenea?
Certo, la dimostrazione è corposa: la ricerca ha coinvolto 253.000 persone che hanno condiviso più di 75 milioni di URL! Non sono invece sicuro che la dimostrazione di Bakshy porti a quello che ha illustrato Farhad Manjoo. In effetti, questo studio non ci dice niente sul modo con cui interpretiamo le notizie che ci arrivano. Bakshy non precisa se le storie a cui accediamo grazie ai nostri legami deboli differiscono ideologicamente della nostra visione del mondo. In pratica, non ci sono dati per stabilire se le amicizie deboli condivise su Facebook ci fanno davvero uscire dalla nostra bolla. Le nostre amicizie lontane sono eterofile o omofile? Se i legami deboli ci portano una maggiore diversità, dobbiamo ancora misurarla.
I ricercatori che si interessano a queste domande hanno sinora sottolineato, invece, che alla fine chi si somiglia, si piglia. "I social media tendono piuttosto a rafforzare le differenze sociali", ha sottolineato Dahah Boyd. La nostra xenofilia è abbastanza limitata, ha ricordato in modo analogo Ethan Zuckerman. La base della nostra rete relazionale su Facebook non è costruita in un modo strategico tale da aumentare la diversità delle nostre relazioni: al contrario, l'algoritmo che favorisce le relazioni si appoggia su queste per suggerirne di altre. E la diversità della nostra rete relazionale è alla fine abbastanza debole. L'omogeneità e la similarità sono spesso le prime ragioni dell’avvio delle nostre relazioni.
Sinan Aral e Marshall Van Alstyne hanno mostrato che i legami deboli non sempre erano i più efficaci per poter ricevere nuove notizie. Lo studio di Bakshy dimentica, certamente, il contesto che determina lo scambio informativo. In novembre, una ricerca ("Social selection and peer influence in an online social network”) realizzata da tre sociologi del Berkman Center for Internet and Society di Harvard - Kevin Lewis, Marco Gonzalez e Jason Kaufman, ha ricordato che gli studenti che condividevano certi gusti per musica e film tendevano a essere insieme più legati rispetto agli altri. Comunque, insistevano gli autori, ciò non significava necessariamente che i loro gusti erano influenzati da ciò che i loro amici ascoltano. Se la prossimità (sociale, di genere, razziale, geografica e socioeconomica) ha una sua importanza per stabilire delle relazioni, la divisione dei gusti è più complessa.
E tutto ciò non prende in considerazione il nostro funzionamento cognitivo che tende a riconfigurare il mondo perché si adatti alle nostre ideologie partigiane: ciò significa che, se anche mettessimo gli occhi su notizie che sono differenti dalla nostra visione del mondo, ciò non significherebbe automaticamente che le accetteremmo facilmente, al contrario.
Una maggiore diversità umana ci porta a minori diversità personali
Nel suo blog, il giornalista Jonah Lehrer (di cui le edizioni Robert Laffont hanno appena tradotto la prima opera, Proust était un neuroscientifique dopo aver fatto uscire da qualche mese il suo secondo libro Faire le bon choix, che vi raccomando caldamente, tutti e due) ci ricorda che i contrari non si attirano. "Le persone ne cercano altre a cui somigliano. È l'effetto di attrazione per i simili che gli psicologi hanno rilevato in quasi tutte le culture. Non importa dove viviamo, come siamo cresciuti o la lingua che parliamo, abbiamo voglia di passare del tempo con le persone che ci somigliano."
E il giornalista cita lo studio (.pdf) degli psicologi Paul Ingram e Michael Morris della Columbia University che hanno invitato a un cocktail un gruppo eterogeneo di dirigenti. La maggioranza aveva prima dichiarato che il loro principale obiettivo era quello di incontrare il maggior numero possibile di persone differenti per allargare la loro rete sociale. Purtroppo, non è quello che è avvenuto. Munendo i partecipanti di etichette elettroniche, Ingram e Morris hanno rilevato che i partecipanti hanno principalmente interagito con le persone a cui più somigliavano: i banchieri hanno discusso coi banchieri, i commercialisti tra loro e i contabili con altri contabili. Invece di tessere relazioni con degli sconosciuti che provengono da altri ambienti, tendiamo ad avvicinarci a persone che giungono da un mondo simile al nostro. "La limitatezza del loro ambiente sociale si era rafforzata", ha sottolineato Lehrer. Le persone tendono a parlare con coloro che conoscono già o a ricercare quelli che sono più simili.
Ma questa voglia di similitudine non si limita a influenzare il nostro comportamento nelle serate mondane, ma determina anche le nostre modalità sociali. È ciò che hanno dimostrato gli psicologi Angela Bahn, Kate Pickett e Christian Crandall della Kansas University (vedi il loro studio: Social ecology of similarity : Big schools, small schools and social relationships). Questi psicologi hanno cercato di misurare se la diversità sociale portava ad avere amicizie più diversificate. I ricercatori hanno paragonato le relazioni tra studenti che provengono dal campus dell'università del Kansas (25.000 studenti) con quelli di quattro piccoli collegi del Kansas ubicati in zone rurali (che hanno una media di 525 alunni). I ricercatori hanno avvicinato coppie di persone negli spazi pubblici di queste scuole per farle rispondere a un sondaggio che richiedeva prima i dati demografici (età, origine etnica, ideologia politica, religione) e che poi poneva delle domande sulle loro opinioni personali (Cosa pensate dell'aborto? Vi siete già ubriacati? Quante sigarette consumate? Fate dello sport?) Una serie di domande di questo tipo consente di generare rapidamente la descrizione di una persona e di valutare un tasso di similitudine.
"In un mondo ideale, la possibilità di incontrare molte persone differenti dovrebbe portarci a una grande diversità di amicizie. Ma gli psicologi hanno constatato il contrario. Gli studenti del campus diventavano principalmente amici di persone che somigliavano tra loro in modo più marcato rispetto a quanto avviene nelle scuole rurali." Secondo gli scienziati, il livello di correlazione tra amicizie generato dal sondaggio è stato superiore all’80% per le domande poste agli studenti della Kansas University. Invece di frequentare persone differenti – con possibili disaccordi sull'aborto o sulla passione per gli sport -, gli studenti hanno ubbidito all'attrazione per la similarità, passando al vaglio la vasta popolazione del campus per trovare la cerchia di amicizie più omologa possibile". Come sottolineato dai i ricercatori, "i contesti sociali più allargati determinano migliori opportunità per un assortimento ancora più ravvicinato."
È una cosa triste sotto vari aspetti, afferma Jonah Lehrer. Intanto, le amicizie erano in realtà più vicine e più durature nei piccoli college, e ciò suggerisce che non ci sia niente di intrinsecamente benefico nel ricercare persone simili (i contrari non attirano, ma dovrebbero farlo). Altri studi hanno mostrato che avere una rete sociale diversificata porta dei benefici impressionanti, come mostra questa analisi (.pdf) del sociologo Martin Ruef sui diplomati della Business School di Stanford. Gli imprenditori che hanno una rete sociale più entropica e variegata hanno una capacità di innovazione tre volte più elevata rispetto agli altri, suggerendo che la possibilità di accedere a notizie che provengono dall’esterno è una fonte essenziale per le nuove idee.
"Malgrado questi risultati, i nostri vecchi istinti sociali ci portano sulla cattiva strada e alla fine rimaniamo intrappolati in una bolla di omogeneità." Questi risultati vanno a complicare le giustificazioni per l’adozione di programmi di interazione positiva, afferma ancora Lehrer. Ad esempio nella causa di Grutter contro Bollinger, la Corte Suprema americana ha stabilito che le università hanno "un interesse determinante ad ottenere quei vantaggi educativi che derivano da una popolazione studentesca diversificata". In teoria, è assolutamente vero, come sottolinea il giornalista scientifico. Ma la ricerca degli psicologi del Kansas ci mostra che la diversità ne viene minata, tanto che un corpo studentesco più allargato porta ad interazioni meno variegate. Come ripetuto dai ricercatori: "Quando le opportunità abbondano, le persone sono libere di scegliersi criteri più stretti per la selezione delle proprie amicizie mentre, quando hanno meno possibilità di scelta, devono trovare soddisfazione utilizzando criteri meno rigidi. I nostri risultati rivelano un aspetto ironico: tanto più è grande la diversità umana in un ambiente, tanto meno si ottiene in termini di diversità personale."
A meno di costruire nuove strategie sociali evolute, è molto probabile che le reti sociali digitali abbiano gli stessi difetti delle reti sociali reali.

 

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