Dal tessuto collettivo al tessuto connettivo. È la rivoluzione copernicanadell’i- life, l’ultima frontiera della codificazione digitale della vita. Che si allontana dalla rigidità tolemaica dell’informatica tradizionale, con la macchina al centro di tutto, per sconfinare nell’egocentrismo fluido della i-generation.
I-pod, i-phone, i-pad, i prodotti con la i, suonano come la prima persona singolare dell’individualismo di massa contemporaneo. Molto più che semplici strumenti del comunicare, questi oggetti sono delle estensioni del soggetto, delle appendici inseparabili dell’io. Più che cose, meno che persone, occupano lo spazio vuoto che separa e unisce l’organico e l’inorganico. Icone di una metamorfosi. Proprio come gli ibridi della mitologia, chimere, sirene, centauri, che rappresentavano in una sola figura il più che animale e il meno che umano, ovvero la dualità misteriosa che lega e distingue un regno dall’altro. Enigmi multifunzione, personificazioni di mille virtualità interdette agli umani. La loro natura plurale ne faceva dei multiprocessori in carne ed ossa, in grado di esplorare dimensioni sconosciute, capaci di performance cognitive fuori dell’ordinario. Per esempio intravedere contemporaneamente passato e futuro come dei multitasking, far comunicare mondi lontani proprio incarnandoli nel loro corpo binario. Interfaccia animati, connessioni viventi, nessi in carne ed ossa. È singolare che il centauro più doppio e astuto si chiami proprio Nesso. E che la radice di questo nome abbia a che fare con il filo, il legame ovvero con la rete.
Che i-pod sei? È il sapiente slogan della mela smozzicata di Cupertino che la dice lunga sullo statuto del non-lettore più venduto di sempre. Più che oggetti, quelli con la i sono delle non-persone, ma tanto attaccati a noi da diventare gli attributi indispensabili dell’identità, qualità secondarie enon semplici proprietà. In questo senso gli i-life sono i pronomi personali dell’io virtuale, i nuovi indicativi dell’umanità digitale. Nonché gli emblemi di quella naturalizzazione del sociale operata dalla tecnologia che prende a modello la natura e riscrive la mappa dei sensi. Ricominciando dal tatto.
O meglio daltouch che rappresenta l’apoteosi della tattilità ormai in grado di annettersi vista e udito e diventare il senso intelligente per antonomasia. Niente a che fare con l’arcaismo binario dei tasti, con la meccanica invadente dei cursori. Ben al di là dell’on e dell’off, ci troviamo gettati in quell’ultima Thule della mitologia virtuale dove la tecnologia assume le sembianze incantatorie della magia. Quando una cosa supera le capacità di capirne fino in fondo le potenzialità finisce per sembrare magica. Lo diceva James George Frazer, il padre dell’antropologia. E lo ripetono i vertici della Apple per illustrare la fascinazione dell’I-pad. Che sta anche nel misterioso scarto tra l’esiguità inconsutile dell’oggetto e la sua incredibile potenza. Un tutto virtuale in un nulla materiale. Che basta sfiorare, come la lampada di Aladino, per avere a nostra disposizione funzioni da mille e una notte. E a pensarci bene nell’idea stessa deltouch screen c’è qualcosa della sfera di cristallo che apre infinite finestre sul mondo dallequali è possibile guardare nel passato come vivere nel futuro.
Ma queste tavolette senza spessore, che ci fanno surfeggiare leggeri sulle onde del web, trasparenze pure come i cieli danteschi, sono anche latabula rasa del nostro tempo. Ovvero il luogo simbolo della virtualità infinita dell’immaginazione, dove tutto può apparire e dove tutto può venire a noi. Come glieidola del mondo antico, parvenze create dalla fantasia degli uomini che prendevano corpo per magia, come avatar soprannaturali. Con gli i-life la tecnologia ha materializzato gli e idola mentre smaterializza se stessa. Moltiplica le immagini mentre miniaturizza il supporto. E così il tablet finisce per richiamare molto da vicino l’idea aristotelica della mente umana, come tavoletta di cera bianca modellata e rimodellata dalle impressioni ricevute dai sensi. E sempre pronta a riempirsi di segni e di immagini. È anche questa la ragione del successo improvviso dell’e-book arrivato quasi a sorpresa dopo essere stato tante volte atteso e annunciato, come Godot. Il fatto è che c’era il messaggio ma non c’era ancora il giusto mezzo, latabula rasa appunto, dove far esistere quella virtualità muta.
Il multitouch celebra insomma l’avvento della svolta tattile, già annunciata da McLuhan, che fa dei sensi idrivedell’intelligenza e del tatto il supersenso. Molto vicino a quello che un drago della logica come san Tommaso chiama “sensorio comune”, ovvero quello che sincronizza tutti gli altri sensi e li mette in riga. Ma li mette anche a sistema, li ingegnerizza proprio come le diverse funzioni che comandano gli i-life. Non è un caso che il tatto come dicono molti scienziati cognitivi sia il senso del presente, quello che ha l’immediatezza del pensiero nei polpastrelli, sensori che accendono simultaneamente sensazioni, rappresentazioni, visioni, passioni, emozioni. Come succede ai bambini che hanno col mondo una relazione in presa diretta, di evidenza palmare.
È esattamente quel che accade nell’i-life che fa dell’evidenza palmareuna logica, un’etica e un’esteticaall’insegna dell’augmented reality.Dove l’universo intero sembra ruotare intorno all’i, ovvero a un io infinitamente espanso dai suoi recettori elettronici e proiettato in una gravitazione liquida senza un centro di gravità permanente. In un cosmorama di applicazioni che lanciamo come sonde nell’infinità potenziale della rete. Per navigare nel mare della vita con cento occhi tecnologici che diventano bussola e sestante, mappa e cartografia del presente mutante. C’è un app per tutto e per tutti. Da come controllare l’appetito a come smettere di fumare, dal contapassi al contacalorie, dall’arte del bouquet ai segreti per usare il vecchio coltellino svizzero senza affettarsi le dita, dalle istruzioni per vivere bene la gravidanza, alle lezioni di piano, dalla meditazione trascendentale alle lingue straniere, dall’automassaggio alla cucina tamil. Dall’osservazione delle stelle alla preparazione degli esami, fino alla giusta intonazione di un mantra. Senza dire della musica tradizionale per curare i tarantolati, che adesso tutti possono scaricare da iTunes.
Da duecento a duecentomila in tre anni, la crescita esponenziale delle applicazioni, una vera corsa all’oro per gli sviluppatori, riflette il bisogno di controllare un mondo troppo complesso. È l’antica doxa popolare in digitale. Una forma di autoeducazione permanente, una pedagogia on demand per bambini adulti e adulti bambini. Continuamente alle prese con una babelica enciclopedia dei perché. Ciascuno sempre connesso con il suo tutor virtuale e sconnesso dagli altri. Per imparare a stare da soli al mondo, o meglio per essere sempre il centro del proprio i-mondo. E così la rete diventa il vero tessuto connettivo di una socialità in frammenti. E l’informatica sfiora il dispositivo biopolitico diventando estensione pensante. Mentre il vecchio cogito lascia il posto al digito ergosum.
I-pod, i-phone, i-pad, i prodotti con la i, suonano come la prima persona singolare dell’individualismo di massa contemporaneo. Molto più che semplici strumenti del comunicare, questi oggetti sono delle estensioni del soggetto, delle appendici inseparabili dell’io. Più che cose, meno che persone, occupano lo spazio vuoto che separa e unisce l’organico e l’inorganico. Icone di una metamorfosi. Proprio come gli ibridi della mitologia, chimere, sirene, centauri, che rappresentavano in una sola figura il più che animale e il meno che umano, ovvero la dualità misteriosa che lega e distingue un regno dall’altro. Enigmi multifunzione, personificazioni di mille virtualità interdette agli umani. La loro natura plurale ne faceva dei multiprocessori in carne ed ossa, in grado di esplorare dimensioni sconosciute, capaci di performance cognitive fuori dell’ordinario. Per esempio intravedere contemporaneamente passato e futuro come dei multitasking, far comunicare mondi lontani proprio incarnandoli nel loro corpo binario. Interfaccia animati, connessioni viventi, nessi in carne ed ossa. È singolare che il centauro più doppio e astuto si chiami proprio Nesso. E che la radice di questo nome abbia a che fare con il filo, il legame ovvero con la rete.
Che i-pod sei? È il sapiente slogan della mela smozzicata di Cupertino che la dice lunga sullo statuto del non-lettore più venduto di sempre. Più che oggetti, quelli con la i sono delle non-persone, ma tanto attaccati a noi da diventare gli attributi indispensabili dell’identità, qualità secondarie enon semplici proprietà. In questo senso gli i-life sono i pronomi personali dell’io virtuale, i nuovi indicativi dell’umanità digitale. Nonché gli emblemi di quella naturalizzazione del sociale operata dalla tecnologia che prende a modello la natura e riscrive la mappa dei sensi. Ricominciando dal tatto.
O meglio daltouch che rappresenta l’apoteosi della tattilità ormai in grado di annettersi vista e udito e diventare il senso intelligente per antonomasia. Niente a che fare con l’arcaismo binario dei tasti, con la meccanica invadente dei cursori. Ben al di là dell’on e dell’off, ci troviamo gettati in quell’ultima Thule della mitologia virtuale dove la tecnologia assume le sembianze incantatorie della magia. Quando una cosa supera le capacità di capirne fino in fondo le potenzialità finisce per sembrare magica. Lo diceva James George Frazer, il padre dell’antropologia. E lo ripetono i vertici della Apple per illustrare la fascinazione dell’I-pad. Che sta anche nel misterioso scarto tra l’esiguità inconsutile dell’oggetto e la sua incredibile potenza. Un tutto virtuale in un nulla materiale. Che basta sfiorare, come la lampada di Aladino, per avere a nostra disposizione funzioni da mille e una notte. E a pensarci bene nell’idea stessa deltouch screen c’è qualcosa della sfera di cristallo che apre infinite finestre sul mondo dallequali è possibile guardare nel passato come vivere nel futuro.
Ma queste tavolette senza spessore, che ci fanno surfeggiare leggeri sulle onde del web, trasparenze pure come i cieli danteschi, sono anche latabula rasa del nostro tempo. Ovvero il luogo simbolo della virtualità infinita dell’immaginazione, dove tutto può apparire e dove tutto può venire a noi. Come glieidola del mondo antico, parvenze create dalla fantasia degli uomini che prendevano corpo per magia, come avatar soprannaturali. Con gli i-life la tecnologia ha materializzato gli e idola mentre smaterializza se stessa. Moltiplica le immagini mentre miniaturizza il supporto. E così il tablet finisce per richiamare molto da vicino l’idea aristotelica della mente umana, come tavoletta di cera bianca modellata e rimodellata dalle impressioni ricevute dai sensi. E sempre pronta a riempirsi di segni e di immagini. È anche questa la ragione del successo improvviso dell’e-book arrivato quasi a sorpresa dopo essere stato tante volte atteso e annunciato, come Godot. Il fatto è che c’era il messaggio ma non c’era ancora il giusto mezzo, latabula rasa appunto, dove far esistere quella virtualità muta.
Il multitouch celebra insomma l’avvento della svolta tattile, già annunciata da McLuhan, che fa dei sensi idrivedell’intelligenza e del tatto il supersenso. Molto vicino a quello che un drago della logica come san Tommaso chiama “sensorio comune”, ovvero quello che sincronizza tutti gli altri sensi e li mette in riga. Ma li mette anche a sistema, li ingegnerizza proprio come le diverse funzioni che comandano gli i-life. Non è un caso che il tatto come dicono molti scienziati cognitivi sia il senso del presente, quello che ha l’immediatezza del pensiero nei polpastrelli, sensori che accendono simultaneamente sensazioni, rappresentazioni, visioni, passioni, emozioni. Come succede ai bambini che hanno col mondo una relazione in presa diretta, di evidenza palmare.
È esattamente quel che accade nell’i-life che fa dell’evidenza palmareuna logica, un’etica e un’esteticaall’insegna dell’augmented reality.Dove l’universo intero sembra ruotare intorno all’i, ovvero a un io infinitamente espanso dai suoi recettori elettronici e proiettato in una gravitazione liquida senza un centro di gravità permanente. In un cosmorama di applicazioni che lanciamo come sonde nell’infinità potenziale della rete. Per navigare nel mare della vita con cento occhi tecnologici che diventano bussola e sestante, mappa e cartografia del presente mutante. C’è un app per tutto e per tutti. Da come controllare l’appetito a come smettere di fumare, dal contapassi al contacalorie, dall’arte del bouquet ai segreti per usare il vecchio coltellino svizzero senza affettarsi le dita, dalle istruzioni per vivere bene la gravidanza, alle lezioni di piano, dalla meditazione trascendentale alle lingue straniere, dall’automassaggio alla cucina tamil. Dall’osservazione delle stelle alla preparazione degli esami, fino alla giusta intonazione di un mantra. Senza dire della musica tradizionale per curare i tarantolati, che adesso tutti possono scaricare da iTunes.
Da duecento a duecentomila in tre anni, la crescita esponenziale delle applicazioni, una vera corsa all’oro per gli sviluppatori, riflette il bisogno di controllare un mondo troppo complesso. È l’antica doxa popolare in digitale. Una forma di autoeducazione permanente, una pedagogia on demand per bambini adulti e adulti bambini. Continuamente alle prese con una babelica enciclopedia dei perché. Ciascuno sempre connesso con il suo tutor virtuale e sconnesso dagli altri. Per imparare a stare da soli al mondo, o meglio per essere sempre il centro del proprio i-mondo. E così la rete diventa il vero tessuto connettivo di una socialità in frammenti. E l’informatica sfiora il dispositivo biopolitico diventando estensione pensante. Mentre il vecchio cogito lascia il posto al digito ergosum.
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