Un sant'uomo ebbe un giorno da conversare con Dio e gli chiese :
«Signore, mi piacerebbe sapere come sono il Paradiso e l'Inferno». Dio condusse il sant'uomo verso due porte. Ne aprì una e gli permise di guardare all'interno. C'era una grandissima tavola rotonda. Al centro della tavola si trovava un grandissimo recipiente contenente cibo dal profumo delizioso. Il sant'uomo sentì l'acquolina in bocca. Le persone sedute attorno al tavolo erano magre, dall'aspetto livido e malato.
Avevano tutti l'aria affamata.Avevano dei cucchiai dai manici lunghissimi, attaccati alle loro braccia. Tutti potevano raggiungere il piatto di cibo e raccoglierne un po', ma poiché il manico del cucchiaio era più lungo del loro braccio non potevano accostare il cibo alla bocca.Il sant'uomo tremò alla vista della loro miseria e delle loro
sofferenze. Dio disse: "Hai appena visto l'Inferno". Dio e l'uomo si diressero verso la seconda porta. Dio l'aprì.La scena che l'uomo vide era identica alla precedente. C'era la grande tavola rotonda, il recipiente che gli fece venire l'acquolina.Le persone intorno alla tavola avevano anch'esse i cucchiai dai lunghi manici. Questa volta, però, erano ben nutrite, felici e conversavano tra di loro sorridendo.
Il sant'uomo disse a Dio :«Non capisco!»E' semplice, - rispose Dio, - essi hanno imparato che il manico del cucchiaio troppo lungo non consente di nutrire se stessi.... ma permette di nutrire il proprio vicino. Perciò hanno imparato a nutrirsi gli uni con gli altri! Quelli dell'altra tavola, invece, non pensano che a loro stessi... Inferno e
Paradiso sono uguali nella struttura... La differenza la portiamo dentro di noi!!!
"Sulla terra c'è abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti ma non per soddisfare l'ingordigia di pochi.I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni.
Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo".
Mahatma Gandhi.
Metafora sempre attuale... racconto da leggere
martedì 26 ottobre 2010
A proposito d Biodiversità.... di Bruno Niola
venerdì 22 ottobre 2010
Mi chiedo sempre quanto, il concetto di sostenibilità possa trovare un sincero interesse, da parte di chi mi ascolta…
Da un lato siamo tutti sinceramente preoccupati di non dover seppellire il pianeta sotto montagne di rifiuti, però poi, se si guasta il nostro lettore di Dvd (o qualunque altro elettrodomestico), ci appare molto più conveniente buttarlo e comprarne un altro piuttosto che farlo riparare?
Non so se è una leggenda metropolita la cosa che sto per dire, però è stato detto che se tutti i cinesi volessero usare carta igienica come noi, occorrerebbe distruggere mezza l'Amazzonia.
Ma se per ipotesi questa notizia fosse vera, mi chiedo: ma chi siamo noi per impedire ai cinesi di godere dei nostri stessi agi? Saremmo mai disposti a usare in bagno la carta da giornale per permettere quella igienica ai figli del Celeste Impero?
Non sto qui a fare del facile moralismo attenzione, dico questo, perché a me per primo capita di essere sedotto da nuovi prodotti. Per esempio a casa ho un televisore a colori un po’ vecchiotto (quello ancora col tubo catodico per intenderci) che “purtroppo” funziona ancora.
Bene! Facendomi anche violenza mi sono imposto di tenerlo fin quando funzionerà!
L’imperativo che ci assilla, che ci ossessiona è “CONSUMO QUINDI SONO”. Ma non potrebbe essere altrimenti se la nostra ricchezza nazionale si misura ancora con il PIL.
“lo Sviluppo Sostenibile è uno sviluppo che soddisfa le esigenze del presente senza compromettere la possibilità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. (Rapporto Brundtland 1987 )
Mio nonno diceva che quando si sentono ripetere le stesse cose all’infinito poi queste si svuotano di significato e diventano un clichè, stereotipo. Ed effettivamente quante volte abbiamo sentito usare (sarebbe meglio dire abusare) di questa frase…
Di questa frase mi colpisce però la parola: futuro.
Pensiamo al concetto di “futuro”… P. Valery “ Neanche più il futuro è quello di una volta”… Oggi il futuro cambia segno… per nostri nonni il futuro era carico di promesse, di passioni, di aspirazioni… era facile immaginare che ad una certa età si finiva la scuola, che a 24-26 anni ci si sposava, poco dopo si avevano dei figli ecc…
Siamo passati al passaggio da una fiducia smisurata per il futuro a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro… Oggi c’è un clima diffuso di pessimismo che evoca un domani molto meno luminoso, per non dire oscuro… inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, comparsa di nuove malattie…precarietà
Viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinosa chiamava “passioni tristi” un senso pervasivo di impotenza e incertezza che ci porta a rinchiudere in noi stessi, a vivere il mondo (ma anche l’altro) come una minaccia…
L’educazione dei nostri figli non è più un invito a desiderare il mondo: si educa in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, a uscire da pericoli incombenti…
Un adolescenza che si prolunga all’infinito… una vita che si sposta sempre più in avanti…
Ogni volta però mi viene da chiedere del futuro di quali generazioni parliamo.
Del futuro dei nostri figli? Del futuro dei figli degli extracomunitari, del futuro di un bambino africano che al massimo aspira a vivere fino al giorno dopo.
Quanto sono abissali queste distanze…
Considerazioni del genere sembrano fumose e poco pertinenti eppure occorre capire come concetti, apparentemente esterni alla nostra esistenza possano avere un impatto sulla nostra quotidianità…
O meglio ancora quanto la nostra quotidianità, i nostri gesti (anche quelli piccoli e apparentemente insignificati) segnano il nostro essere sulla terra…
A tal proposito mi viene in mente una storia.
"Un uomo ha un piccolo podere in un villaggio che coltiva con enorme fatica per poter mantenere tutta la famiglia con quel pezzo di terra. Arriva la tempesta. L’uomo disperato cerca di fare in modo che l’acqua non sommerga tutta la sua coltivazione, e lavora tutta la notte in mezzo al fango, scava fosse, fa uscire l’acqua da una parte, poi si accorge che è sbagliato, gira dall’altra parte, rompe un albero e lo fa cadere cercando di fermare il torrente; lavora tutta la notte. Ce la fa. Il suo pezzo d’orto non viene distrutto come quello degli altri vicini. Va a dormire stanco morto all’alba. Quando si sveglia, il sole ha seccato tutto, non si vedono più neanche le tracce del fango. Dall’alto della sua casupola si accorge improvvisamente che tutto quello che ha fatto disegna sulla terra una enorme cicogna."
Ci siamo mai interrogati se la nostra vita disegna qualcosa?
E’ vero anche che possiamo vedere il disegno della nostra vita soltanto dopo aver agito. Come l’uomo del racconto che mentre lavorava vedeva solo acqua e fango…
Eppure dovremmo avere maggiore consapevolezza di lasciare una impronta sulla Terra.
La scarsa consapevolezza che la nostra vita disegna qualcosa produce una distanza sempre più profonda valori “esibiti” e valori “vissuti”, e mentre i primi sono quelli di cui si parla (e molto), i secondi sono quelli che, non sempre consapevolmente, guidano le nostre azioni.
Se poi cerchiamo di tradurre operativamente il tema della sostenibilità ambientale siamo sempre più orientati a capire come, nelle attuali condizioni storiche, ambientali, economiche, di produzione, di consumo, di globalizzazione, possiamo sviluppare spirito di comunità e interdipendenza tra gli uomini, e tra questi e le comunità delle altre specie viventi animali e vegetali.
Oggi bisogna progettare strategie di un nuovo rapporto con il mondo, con la natura, la biosfera,. Strategie in grado di rispettare i limiti e legami di sostenibilità.
Quello che emerge come evidente in questo discorso, è che il complesso delle cose da ripensare e da fare, ai macro come ai micro livelli, rimanda in fondo all’obiettivo primario di sfidare i fondamenti del modo di stare e agire insieme degli uomini, del vivere umano associato.
La sfida che lo sviluppo sostenibile propone, può essere raccolta se ci si convince che una forma di sviluppo è l’espressione più o meno coerente di una forma di organizzazione sociale.
Pensiamo alla citta di Ottavia, di Calvino, la città ragnatela. Una città sospesa tra due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle.
Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno.
Tutto il resto, invece d'elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case
fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d'acqua, becchi del gas,
girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi,
teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo.
Sospesa sull'abisso, la vita degli abitanti d'Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno
che più di tanto la rete non regge.
LA NUOVA VITA DIGITALE DEL NARCISISMO DI MASSA di Marino Niola
giovedì 14 ottobre 2010
Dal tessuto collettivo al tessuto connettivo. È la rivoluzione copernicanadell’i- life, l’ultima frontiera della codificazione digitale della vita. Che si allontana dalla rigidità tolemaica dell’informatica tradizionale, con la macchina al centro di tutto, per sconfinare nell’egocentrismo fluido della i-generation.
I-pod, i-phone, i-pad, i prodotti con la i, suonano come la prima persona singolare dell’individualismo di massa contemporaneo. Molto più che semplici strumenti del comunicare, questi oggetti sono delle estensioni del soggetto, delle appendici inseparabili dell’io. Più che cose, meno che persone, occupano lo spazio vuoto che separa e unisce l’organico e l’inorganico. Icone di una metamorfosi. Proprio come gli ibridi della mitologia, chimere, sirene, centauri, che rappresentavano in una sola figura il più che animale e il meno che umano, ovvero la dualità misteriosa che lega e distingue un regno dall’altro. Enigmi multifunzione, personificazioni di mille virtualità interdette agli umani. La loro natura plurale ne faceva dei multiprocessori in carne ed ossa, in grado di esplorare dimensioni sconosciute, capaci di performance cognitive fuori dell’ordinario. Per esempio intravedere contemporaneamente passato e futuro come dei multitasking, far comunicare mondi lontani proprio incarnandoli nel loro corpo binario. Interfaccia animati, connessioni viventi, nessi in carne ed ossa. È singolare che il centauro più doppio e astuto si chiami proprio Nesso. E che la radice di questo nome abbia a che fare con il filo, il legame ovvero con la rete.
Che i-pod sei? È il sapiente slogan della mela smozzicata di Cupertino che la dice lunga sullo statuto del non-lettore più venduto di sempre. Più che oggetti, quelli con la i sono delle non-persone, ma tanto attaccati a noi da diventare gli attributi indispensabili dell’identità, qualità secondarie enon semplici proprietà. In questo senso gli i-life sono i pronomi personali dell’io virtuale, i nuovi indicativi dell’umanità digitale. Nonché gli emblemi di quella naturalizzazione del sociale operata dalla tecnologia che prende a modello la natura e riscrive la mappa dei sensi. Ricominciando dal tatto.
O meglio daltouch che rappresenta l’apoteosi della tattilità ormai in grado di annettersi vista e udito e diventare il senso intelligente per antonomasia. Niente a che fare con l’arcaismo binario dei tasti, con la meccanica invadente dei cursori. Ben al di là dell’on e dell’off, ci troviamo gettati in quell’ultima Thule della mitologia virtuale dove la tecnologia assume le sembianze incantatorie della magia. Quando una cosa supera le capacità di capirne fino in fondo le potenzialità finisce per sembrare magica. Lo diceva James George Frazer, il padre dell’antropologia. E lo ripetono i vertici della Apple per illustrare la fascinazione dell’I-pad. Che sta anche nel misterioso scarto tra l’esiguità inconsutile dell’oggetto e la sua incredibile potenza. Un tutto virtuale in un nulla materiale. Che basta sfiorare, come la lampada di Aladino, per avere a nostra disposizione funzioni da mille e una notte. E a pensarci bene nell’idea stessa deltouch screen c’è qualcosa della sfera di cristallo che apre infinite finestre sul mondo dallequali è possibile guardare nel passato come vivere nel futuro.
Ma queste tavolette senza spessore, che ci fanno surfeggiare leggeri sulle onde del web, trasparenze pure come i cieli danteschi, sono anche latabula rasa del nostro tempo. Ovvero il luogo simbolo della virtualità infinita dell’immaginazione, dove tutto può apparire e dove tutto può venire a noi. Come glieidola del mondo antico, parvenze create dalla fantasia degli uomini che prendevano corpo per magia, come avatar soprannaturali. Con gli i-life la tecnologia ha materializzato gli e idola mentre smaterializza se stessa. Moltiplica le immagini mentre miniaturizza il supporto. E così il tablet finisce per richiamare molto da vicino l’idea aristotelica della mente umana, come tavoletta di cera bianca modellata e rimodellata dalle impressioni ricevute dai sensi. E sempre pronta a riempirsi di segni e di immagini. È anche questa la ragione del successo improvviso dell’e-book arrivato quasi a sorpresa dopo essere stato tante volte atteso e annunciato, come Godot. Il fatto è che c’era il messaggio ma non c’era ancora il giusto mezzo, latabula rasa appunto, dove far esistere quella virtualità muta.
Il multitouch celebra insomma l’avvento della svolta tattile, già annunciata da McLuhan, che fa dei sensi idrivedell’intelligenza e del tatto il supersenso. Molto vicino a quello che un drago della logica come san Tommaso chiama “sensorio comune”, ovvero quello che sincronizza tutti gli altri sensi e li mette in riga. Ma li mette anche a sistema, li ingegnerizza proprio come le diverse funzioni che comandano gli i-life. Non è un caso che il tatto come dicono molti scienziati cognitivi sia il senso del presente, quello che ha l’immediatezza del pensiero nei polpastrelli, sensori che accendono simultaneamente sensazioni, rappresentazioni, visioni, passioni, emozioni. Come succede ai bambini che hanno col mondo una relazione in presa diretta, di evidenza palmare.
È esattamente quel che accade nell’i-life che fa dell’evidenza palmareuna logica, un’etica e un’esteticaall’insegna dell’augmented reality.Dove l’universo intero sembra ruotare intorno all’i, ovvero a un io infinitamente espanso dai suoi recettori elettronici e proiettato in una gravitazione liquida senza un centro di gravità permanente. In un cosmorama di applicazioni che lanciamo come sonde nell’infinità potenziale della rete. Per navigare nel mare della vita con cento occhi tecnologici che diventano bussola e sestante, mappa e cartografia del presente mutante. C’è un app per tutto e per tutti. Da come controllare l’appetito a come smettere di fumare, dal contapassi al contacalorie, dall’arte del bouquet ai segreti per usare il vecchio coltellino svizzero senza affettarsi le dita, dalle istruzioni per vivere bene la gravidanza, alle lezioni di piano, dalla meditazione trascendentale alle lingue straniere, dall’automassaggio alla cucina tamil. Dall’osservazione delle stelle alla preparazione degli esami, fino alla giusta intonazione di un mantra. Senza dire della musica tradizionale per curare i tarantolati, che adesso tutti possono scaricare da iTunes.
Da duecento a duecentomila in tre anni, la crescita esponenziale delle applicazioni, una vera corsa all’oro per gli sviluppatori, riflette il bisogno di controllare un mondo troppo complesso. È l’antica doxa popolare in digitale. Una forma di autoeducazione permanente, una pedagogia on demand per bambini adulti e adulti bambini. Continuamente alle prese con una babelica enciclopedia dei perché. Ciascuno sempre connesso con il suo tutor virtuale e sconnesso dagli altri. Per imparare a stare da soli al mondo, o meglio per essere sempre il centro del proprio i-mondo. E così la rete diventa il vero tessuto connettivo di una socialità in frammenti. E l’informatica sfiora il dispositivo biopolitico diventando estensione pensante. Mentre il vecchio cogito lascia il posto al digito ergosum.
I-pod, i-phone, i-pad, i prodotti con la i, suonano come la prima persona singolare dell’individualismo di massa contemporaneo. Molto più che semplici strumenti del comunicare, questi oggetti sono delle estensioni del soggetto, delle appendici inseparabili dell’io. Più che cose, meno che persone, occupano lo spazio vuoto che separa e unisce l’organico e l’inorganico. Icone di una metamorfosi. Proprio come gli ibridi della mitologia, chimere, sirene, centauri, che rappresentavano in una sola figura il più che animale e il meno che umano, ovvero la dualità misteriosa che lega e distingue un regno dall’altro. Enigmi multifunzione, personificazioni di mille virtualità interdette agli umani. La loro natura plurale ne faceva dei multiprocessori in carne ed ossa, in grado di esplorare dimensioni sconosciute, capaci di performance cognitive fuori dell’ordinario. Per esempio intravedere contemporaneamente passato e futuro come dei multitasking, far comunicare mondi lontani proprio incarnandoli nel loro corpo binario. Interfaccia animati, connessioni viventi, nessi in carne ed ossa. È singolare che il centauro più doppio e astuto si chiami proprio Nesso. E che la radice di questo nome abbia a che fare con il filo, il legame ovvero con la rete.
Che i-pod sei? È il sapiente slogan della mela smozzicata di Cupertino che la dice lunga sullo statuto del non-lettore più venduto di sempre. Più che oggetti, quelli con la i sono delle non-persone, ma tanto attaccati a noi da diventare gli attributi indispensabili dell’identità, qualità secondarie enon semplici proprietà. In questo senso gli i-life sono i pronomi personali dell’io virtuale, i nuovi indicativi dell’umanità digitale. Nonché gli emblemi di quella naturalizzazione del sociale operata dalla tecnologia che prende a modello la natura e riscrive la mappa dei sensi. Ricominciando dal tatto.
O meglio daltouch che rappresenta l’apoteosi della tattilità ormai in grado di annettersi vista e udito e diventare il senso intelligente per antonomasia. Niente a che fare con l’arcaismo binario dei tasti, con la meccanica invadente dei cursori. Ben al di là dell’on e dell’off, ci troviamo gettati in quell’ultima Thule della mitologia virtuale dove la tecnologia assume le sembianze incantatorie della magia. Quando una cosa supera le capacità di capirne fino in fondo le potenzialità finisce per sembrare magica. Lo diceva James George Frazer, il padre dell’antropologia. E lo ripetono i vertici della Apple per illustrare la fascinazione dell’I-pad. Che sta anche nel misterioso scarto tra l’esiguità inconsutile dell’oggetto e la sua incredibile potenza. Un tutto virtuale in un nulla materiale. Che basta sfiorare, come la lampada di Aladino, per avere a nostra disposizione funzioni da mille e una notte. E a pensarci bene nell’idea stessa deltouch screen c’è qualcosa della sfera di cristallo che apre infinite finestre sul mondo dallequali è possibile guardare nel passato come vivere nel futuro.
Ma queste tavolette senza spessore, che ci fanno surfeggiare leggeri sulle onde del web, trasparenze pure come i cieli danteschi, sono anche latabula rasa del nostro tempo. Ovvero il luogo simbolo della virtualità infinita dell’immaginazione, dove tutto può apparire e dove tutto può venire a noi. Come glieidola del mondo antico, parvenze create dalla fantasia degli uomini che prendevano corpo per magia, come avatar soprannaturali. Con gli i-life la tecnologia ha materializzato gli e idola mentre smaterializza se stessa. Moltiplica le immagini mentre miniaturizza il supporto. E così il tablet finisce per richiamare molto da vicino l’idea aristotelica della mente umana, come tavoletta di cera bianca modellata e rimodellata dalle impressioni ricevute dai sensi. E sempre pronta a riempirsi di segni e di immagini. È anche questa la ragione del successo improvviso dell’e-book arrivato quasi a sorpresa dopo essere stato tante volte atteso e annunciato, come Godot. Il fatto è che c’era il messaggio ma non c’era ancora il giusto mezzo, latabula rasa appunto, dove far esistere quella virtualità muta.
Il multitouch celebra insomma l’avvento della svolta tattile, già annunciata da McLuhan, che fa dei sensi idrivedell’intelligenza e del tatto il supersenso. Molto vicino a quello che un drago della logica come san Tommaso chiama “sensorio comune”, ovvero quello che sincronizza tutti gli altri sensi e li mette in riga. Ma li mette anche a sistema, li ingegnerizza proprio come le diverse funzioni che comandano gli i-life. Non è un caso che il tatto come dicono molti scienziati cognitivi sia il senso del presente, quello che ha l’immediatezza del pensiero nei polpastrelli, sensori che accendono simultaneamente sensazioni, rappresentazioni, visioni, passioni, emozioni. Come succede ai bambini che hanno col mondo una relazione in presa diretta, di evidenza palmare.
È esattamente quel che accade nell’i-life che fa dell’evidenza palmareuna logica, un’etica e un’esteticaall’insegna dell’augmented reality.Dove l’universo intero sembra ruotare intorno all’i, ovvero a un io infinitamente espanso dai suoi recettori elettronici e proiettato in una gravitazione liquida senza un centro di gravità permanente. In un cosmorama di applicazioni che lanciamo come sonde nell’infinità potenziale della rete. Per navigare nel mare della vita con cento occhi tecnologici che diventano bussola e sestante, mappa e cartografia del presente mutante. C’è un app per tutto e per tutti. Da come controllare l’appetito a come smettere di fumare, dal contapassi al contacalorie, dall’arte del bouquet ai segreti per usare il vecchio coltellino svizzero senza affettarsi le dita, dalle istruzioni per vivere bene la gravidanza, alle lezioni di piano, dalla meditazione trascendentale alle lingue straniere, dall’automassaggio alla cucina tamil. Dall’osservazione delle stelle alla preparazione degli esami, fino alla giusta intonazione di un mantra. Senza dire della musica tradizionale per curare i tarantolati, che adesso tutti possono scaricare da iTunes.
Da duecento a duecentomila in tre anni, la crescita esponenziale delle applicazioni, una vera corsa all’oro per gli sviluppatori, riflette il bisogno di controllare un mondo troppo complesso. È l’antica doxa popolare in digitale. Una forma di autoeducazione permanente, una pedagogia on demand per bambini adulti e adulti bambini. Continuamente alle prese con una babelica enciclopedia dei perché. Ciascuno sempre connesso con il suo tutor virtuale e sconnesso dagli altri. Per imparare a stare da soli al mondo, o meglio per essere sempre il centro del proprio i-mondo. E così la rete diventa il vero tessuto connettivo di una socialità in frammenti. E l’informatica sfiora il dispositivo biopolitico diventando estensione pensante. Mentre il vecchio cogito lascia il posto al digito ergosum.
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